– You’ve just inspired me, thanks! –
Ha parlato solo lui, un tipo della California con una fiataccina d’alcool e tabacco da stenderti, che assieme al padre e ad altri amici girano l’Alaska in camper.
L’avevo incontrato la sera prima davanti ad una specie di saloon e vista la bici mi aveva chiesto da dove arrivassi. Dopo una breve chiacchierata avevo optato per la vicina taverna, visto che il saloon fra alcool e pistole nelle fondine, era troppo wild già alle cinque del pomeriggio.
L’Alaska mi aveva accolto alla mattina con una discesa pazzesca di 22 km su di un asfalto super liscio, che non avevo mai incontrato in tutto il viaggio. Poi però al ventiduesimo chilometro, né un metro prima né un metro dopo, senza preavvisi di sorta l’asfalto finisce di colpo. La strada si fa molto più stretta e il fondo si tramuta in sterrato da mulattiera buono giusto per mountain-bike, jeep o per i sempre presenti pensionati americani alla guida dei loro mastodontici motorhome, che imperterriti non rallentano mai, però ti salutano sorridenti. Ma non ne muore mai nessuno alla guida di quei cosi?
Senza mezze misure quassù, ma sempre in discesa, stavolta terribile per non so quante ore. Schivando buche e pietre arrivo a Chicken nel pomeriggio. E’ il primo centro abitato che incontro a circa 70 km dal confine.
Fu fondato a inizio Novecento da alcuni cercatori d’oro cui diedero questo nome perché nella zona ci sono molti Ptarmigan, il pennuto simbolo dell’Alaska, e pare che nessuno fosse in grado di pronunciarne correttamente il nome, così iniziarono a chiamarli polli. Era più facile e alla fine si somigliano. Il Ptarmigan è la pernice.
– Mio padre e gli altri amici sono andati in Canada, io non ho il passaporto con me, così sono rimasto qui a Chicken. Poi sai cosa è successo? Non gli hanno fatti entrare.
– Perché?
-Perché mio padre aveva con se le sue guns. Non li hanno fatti entrare solo per questo, capisci?
E no, non capisco. Il mio primo impatto con la civiltà americana (anche se la geografia direbbe Alaska) ce l’ho al casottino di frontiera, dove un gentile poliziotto, come solo i poliziotti di frontiera sanno esserlo, mi chiedeva se era la prima volta che mettessi piede negli Usa e quando pensassi di ripartire. Non ero nemmeno entrato.
Entro nella baracca passando sotto il cartello ‘lasciate fuori le vostre armi’ e vado sotto le grinfie di una poliziottona. Impronte, tante domande, passaporto scannerizzato, tante domande, una marmotta che fa avanti e indietro sulla linea del confine. La poliziottona si addolcisce per dieci secondi mentre mi riempie la borraccia, poi ritorna tutrice dell’ordine e mi stampa sul passaporto un bel timbro con la figura di un caribou e la scritta Poker Creek, il confine.
-Grazie. Arrivederci – faccio io
-Eh no! Sono sei dollari americani! – fa lei
-Ah…posso pagare con la carta?
-No, solo contante
-Ho solamente dei dollari canadesi
-Accetto solo dollari americani
-Ah… Quindi?
-Quindi, vai e spendi i tuoi soldi giù nella valle
Posso entrare.
Chicken è un incrocio polveroso sulla via per il confine e per un altro villaggio, Eagle, sullo rive dello Yukon. Anche qui c’è una draga gettata in un torrente e i turisti si divertono a setacciare il fondo di un vicino fiumiciattolo. Il centro di tutto sono alcune baracche di legno, fra cui primeggia il saloon per il suo portico sozzo. E’ la baracca più affollata, truck e quad con porta fucile sono parcheggiati fuori. Stivali di pelle, urla, birre di qualità infima tirate giù una dopo l’altra e tanti pistoleri.
Visto l’andazzo mangio qualcosa nella locanda a fianco, dove la cosa più selvaggia è l’odore di fritto che s’è impregnato anche nelle tavole di legno del pavimento.
Pianto la tenda nelle vicinanze e ripenso a tutti i 200km pedalati da Dawson a qui. A tutta la polvere, a tutto il fango, a tutte le salite, a tutte le discese superate. Mi addormento.
In mezzo alla notte tre colpi fortissimi mi svegliano, ma la gente sembra ridere poco più in là, così mi riaddormento.
La mattina parlando col tipo della California capisco cosa erano quei tre colpi. Nel video che mi fa vedere c’è una specie di barattolo pieno di reggiseni e mutande caricato con polvere da sparo. Il gioco consiste nell’accendere il barattolo dentro il saloon, dopo che la gente si è mezza spogliata per metterci dentro la propria biancheria intima, portalo di corsa al centro del piazzale dove esploderà. Ma c’è esplosione ed esplosione: se sei veramente bravo potrai vedere i reggiseni cadere intorno come tanti piccoli paracaduti sul piazzale polveroso.
E poi torniamo a parlare di biciclette.
-Io vado poco in bicicletta, però una cosa come stai facendo tu mi piacerebbe. Quanto tempo mi dovrei preparare per essere in forma secondo te?
-Ma secondo me…
-No, perché mi piace questa idea di partire da casa mia e andare a sud magari in Messico. Quanti km stai facendo di media per giorno?
-Almeno…
-Sai che forse anche solamente un week-end sarebbe bello. Bimbo permettendo, sono divorziato. E poi cosa ti porti da mangiare quando viaggi?
-Mi porto del…
-Perché il punto è che forse prima dovrei comprare una bici adatta. La tua ad esempio, mi spieghi un po’ i rapporti o come sistemi la roba sul portapacchi?
-Allora questo cambio…
-No, ma ho capito, mi hai ispirato, grazie! E’ una cosa che voglio fare prima o poi. Come hai detto che ti chiami?
-Stefano
-Ok, Steve. Ciao
-Ciao
Due coppie di ciclisti americani in viaggio dall’Alaska al Sud America ispirarono Roff Smith coi loro articoli su National Geographic. Io sono stato ispirato da Roff Smith e dai suoi articoli sempre su National Geographic del suo giro dell’Australia negli anni ’90. Io molto più miseramente, ma sopratutto chissà come, ho ispirato questo tipo col fiato di una serata piuttosto difficile passata al saloon di Chicken in Alaska circondato da tutti questi Ptarm…Ptarm… circondato da tutti questi polli.
Colonna sonora: Don’t take your guns to town (Johnny Cash)
Continua…
Stefano Elmi
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