
“Volete un po’ di Brunello?” chi ce lo chiede è Lucia, e la domanda non sarebbe tanto particolare se non fossimo appena saltati in sella e se non fossero solamente le dieci di mattina.
Lucia l’ho conosciuta nei miei tour estivi con dei clienti britannici e americani. Lavora per la cantina Padelletti, una delle più antiche famiglie di Montalcino.
Il primo giorno in cui sono andato da loro mi stavo domandando dove il mio capo mi avesse mandato. Conoscendo la sua parsimonia (chiamiamola così) credevo che avesse voluto risparmiare anche sulle degustazioni. Mi sbagliai. L’aspetto rustico del posto non dava giusto merito alla sua storia e soprattutto al vino. E fu lì che arrivò Lucia a presentare i vini ed a raccontare la storia della famiglia presente a Montalcino già dal 1300 e viticultori sin dal 1571.
La loro particolarità è che nessuno aveva mai fatto vino per mestiere in tutti quegli anni, ma per ben 26 generazioni era sempre stato un passatempo. Rettori di università. Illustri professori. Medici. Avvocati. Tutto questo era la famiglia sino a che l’ultima generazione, la 27°, non ha pensato di puntare seriamente sul vino ed aprire un negozio nella via del centro ed incrementare la produzione nei vigneti di proprietà.
L”empatia di Lucia hanno fatto sì che questa tappa del tour toscano fosse una delle più attese per la qualità del vino, per il suo ambiente informale ma vero, per il panorama e per tutta la storia che ci sta dietro.
La domenica mattina a Montalcino, nonostante il Brunello, è molto lenta. Dopo aver scambiato qualche chiacchiera e fatto qualche risata ripartiamo per il nostro secondo giorno.
La discesa da Montalcino ci fa capire quanto eravamo saliti il giorno prima. Fra sali e scendi guadagniamo Torrenieri ed il Castello d Cosona. La nostra meta è Lucignano d’Asso, minuscolo paese cui si arriva solo tramite strade bianche. Qui sono ancora presenti, alla parete di un’abitazione, le scritte della propaganda fascista a firma di Mussolini.
Il nostro obiettivo è una piccola bottega che in passato funzionava da mescita del vino, e che al suo interno aveva una tomba etrusca dove la proprietaria ancora la usava per ricoverare le bibite ed il vino ovviamente. I panini alla finocchiona qui erano un obbligo assaggiarli.
I ricordi giocano un brutto scherzo perché la signora non è più quella di un tempo e l’ansia della nuova titolare o che so io nel servire chi è arrivato prima di noi è estenuante. E’ sola ed ha un gran daffare. La tomba è ancora lì con tutte le bottiglie accatastate. La finocchiona invece rimane un ricordo e restiamo col sapore dell’amaro in bocca, sopratutto vedendo che chi è arrivato comodamente col suv mangia ed invece chi è arrivato in bicicletta (oltre a noi altre quattro persone )è costretto ad una mesta ritirata sotto le grinfie della fame che si fa sentire sempre più.







Resistiamo lungo gli strappi di Pieve a Salti. Due salite e due discese lunghe che ci portano in picchiata a Buonconvento. E qui come dice il nome troviamo qualcosa che ci accoglie. All’apparenza è un bar sport di paese come tanti in un pomeriggio pigro ed assonnato di una domenica di primo pomeriggio. Sulla terrazza ai tavoli badanti e magrebini intenti a bere i loro caffè nei loro rispettivi gruppi. Poche le auto in giro. L’incrocio davanti al bar è deserto. Il sole fa un caldo decisamente poco autunnale. Un giovane italiano annoiato arriva con la sua macchina con stereo ad alto volume, fa due giri del parcheggio e poi parcheggia. Ciondolando attraversa la strada. Entra nel bar senza salutare nessuno e s’incolla allo schermo di una slot-machine.
Entriamo impolverati e sconsolati nel grande stanzone. Ormai è l’ultima possibilità per trovare qualcosa da mangiare sulla strada per Siena. E’ mezzo vuoto sia di cose che di persone. Ci guardiamo intorno. ”Facciamo anche dei panini. Li volete? Abbiamo della finocchiona buonissima” ci dice una voce accogliente al di là del bancone. Io fra poco piango. La fame è una brutta bestia. Divoriamo tutto ed anche una crostata alle albicocche home-made. Alla fine compro due Duplò (non si sa mai) da tenere in tasca per raggiungere (bene) Siena tramite la statale Cassia.
Il ritorno a Siena è costellato di auto che tornano a casa dopo una giornata passata all’aria aperta. Chi suona, chi no. Alcuni salutano, altri vorrebbero metterti sotto.
Siamo felici di essere tornati a pedalare con la borsa attaccata al portapacchi. Era tanto tempo che non lo facevamo insieme. Le ferite sono già in via di guarigione e diventano un trofeo da mostrare e di cui, in una certa misura, vantarsi davanti a colleghi ed amici.
FINE
Stefano Elmi
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