
Per arrivare a Monte Petto non bisogna prendere la salita di petto, è la cosa più sbagliata da fare, non tanto per la salita in se stessa, ma per il fatto che dopo la salita viene sempre (almeno si spera) la discesa. E nello specifico è la fine della discesa che ci ha fregato. Perché poi la salita era stata anche piacevole per quanto del tutto inaspettata.
Col mio onesto Renault Kangoo siamo saliti su di una strada sterrata che poi si è tramutata senza troppi preavvisi in veri e proprio campi, e lei (ed io e Martina assieme a lei) che continuava ad arrampicarsi come neanche una Panda 4×4 old school. Va bene, non esageriamo.
Comunque per tornare allo stato delle cose di quella sera, questo Kangoo saltellate è salito fin quasi alla metà preventivata, ma sul più bello è tornato indietro. Proprio così. Ha deciso che era troppo per lui ed è tornato indietro per i fatti suoi. E noi lì dentro con lui senza poter far niente.
Ad un certo punto si è fermato, sempre da solo, come una Tesla fatta in casa. Sono sceso e sono andato alla presunta meta dove per l’appunto eravamo quasi arrivati. Mi giro intorno e non c’era anima viva. Tutte le porte e le finestre erano sbarrate.
“Non è questo il posto” urlo a Martina rimasta intorno alla macchina “Qui non c’è nessuno!” continuo “Dove sono andati tutti?!”
Abbiamo sbagliato strada ci pare ovvio, ma non per Google che per andare dove dobbiamo andare ci ha spedito dove non dovevamo andare. Logico no?
Andando ormai contro all’algoritmo che continua ad indicare la salita come unica opzione, facciamo inversione. E che inversione. Giù a capofitto per il campo appena percorso (per fortuna che il terreno era asciutto, sennò nel momento in cui sto scrivendo queste righe saremmo ancora lì impantanati).
Poi virata a destra su tre ruote paurosamente in bilico e poi ancora più giù in contropendenza per guadagnare un rassicurante boschetto pianeggiante di piccole querce.
Altra discesa ripida, stavolta sassosa, ma la portiamo infondo in maniera più che decorosa. Poi succede l’imprevisto, ovvero quello che Google non potrà mai prevedere: l’uomo.
Nel nostro caso l’uomo si manifesta con un forcone in mano e fra un grugnito e l’altro capiamo che è il padrone di quasi tutto lì attorno.
Da ingenui proviamo a spiegare che abbiamo seguito quello che Google Map sul nostro smartphone ci ha detto. Ma ad una prima occhiata qui non deve essere ancora arrivata questa roba così optiamo per un più autoctono telefono. Nonostante ciò lui ci guarda come alieni. In effetti come dargli torto. Una coppia, con un cane pieno di riccioli sul sedile posteriore, che seguono quello che gli dice un telefono e percorrono una strada con una macchina qualsiasi mentre lui normalmente ci si arrampica col suo Landini. Capisco che siamo lontanissimi dall’essere credibili, e questo è un guaio. Googolare come uscire da questa situazione ci pare un affronto al signore proprietario dell’intera collina, sopratutto dopo aver visto con quanto vigore stringe il forcone nelle sue grosse mani nodose.
Era talmente palese, per noi, che ci eravamo persi che quasi non riuscivamo a spiegarlo. Ma non per lui ovviamente. Ci è voluto un bel po’ prima di uscirne. Ha anche accennato a certi suoi conoscenti che invece del forcone di solito afferrano la doppietta in questi casi. Lo abbiamo ringraziato per questa che ci è sembrata una gentilezza nei nostri confronti, ed alla fine con la nostra finta innocenza riusciamo a liberarci.
Che poi cosa ne sa un algoritmo nato in California sul come spostarsi in Appennino? Appunto, niente. Tanti saluti a lui e compagnia.
Tornati sulla strada principale e dopo svariate telefonate, i nostri amici a distanza ci provano a guidare. Inseriamo nuovamente l’indirizzo ma su di un’applicazione open source, libera dove chiunque può apportare miglioramenti e svilupparla come vuole. Arriviamo in un batter d’occhio e con una strada molto più agevole.
E’ ottobre, sono quasi le sei di sera ed è buio. Siamo arrivati a Monte Petto frazione di Vergato, Appennino Bolognese.
continua…
Stefano Elmi
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