Fine di una strada

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Homer (Alaska), 26 Agosto 2017. Fine di una strada.

Era la fine degli anni ’90 o giù di lì. Scuola superiore, ragioneria (pessima e pessimo io). Pallacanestro: tre contro tre al campetto delle suore. Rage Against the Machine. Pearl Jam. Litfiba. Beastie Boys ed altri. La guerra in Kosovo sarebbe iniziata da lì a poco ed un regalo inaspettato da parte di mio padre: l’abbonamento per un anno o due, non ricordo bene, all’edizione italiana di National Geographic che era appena nata.

1998 era l’anno in questione. I mesi erano quelli di Aprile, Maggio e Giugno. Il giornalista-viaggiatore-ciclista-avventuriero era Roff Smith cha a 37 anni lasciò un lavoro sicuro a Time Magazine ed in mezzo ad una crisi coniugale s’imbarco’ in un viaggio in solitaria attorno all’Australia.

A cavallo di una Cannondale azzurrina con quattro borse e un materassino legato sul portapacchi iniziò a pedalare con quei vestiti sportivi larghissimi tipici di quegli anni.

Inutile dire che contavo i giorni per l’uscita del numero successivo, dopo aver divorato il primo.

Alcuni anni dopo, in preda ad un impeto d’altruismo, detti via l’intera collezione di National Geographic di due o tre anni quando, con un gruppo di amici, decidemmo di costituire una piccola biblioteca presso il Barga Jazz Club.

Tutto bene, tutto molto bello, ma c’era qualcosa che non mi tornava e non riuscivo a capire cosa ma poi smisi di pensarci.

Qualche anno dopo scesi nottetempo dentro il club e mi ripresi quei tre numeri del 1998, solo quei tre, gli altri chissenefregava e mi li rilessi tutti d’un fiato.

Erano passati più di 10 anni dall’uscita di quei tre numeri, ma all’interno di quelle righe di Roff Smith e di quelle immagini  di Ian Llyod era ancora tutto molto vivo. Ecco cos’era quella cosa.

In quegli anni avevo fatto i miei viaggi in bici, alcuni anche piuttosto lunghi e avventurosi, ma tutti erano stati costretti dal tempo e dai soldi ovviamente.

Poi quest’anno è successo. Per una di quelle congiunzioni alla cazzo ed all’ultimo momento che mi hanno sempre caratterizzato (anche se penso sempre alle conseguenze, pure troppo certe volte), e col pretesto del working-holiday visa per il Canada sono partito.

Sono partito col mezzo che preferisco, la bicicletta, che ti fa sentire libero di muoverti come meglio credi, senza essere vincolato dagli orari dei mezzi pubblici, dai distributori di benzina, dai parcheggi a pagamento e dalle ZTL.

Libero senza costrizioni di tempo e decentemente assistito da qualche risparmio. La prima idea era quella di andare a Nord. Attraversare le Montagne Rocciose, lo Yukon ed arrivare a Dawson City. Tutti luoghi sognati e letti in mille libri diversi.

Poi vabbe’ le cose a metà non si lasciano e così mi son detto continuiamo.

Attraversato lo Yukon su di una chiatta, sono arrivato dopo circa 100 km al confine con l’Alaska percorrendo una strada sterrata che corre lungo un crinale pazzesco al di sopra dei boschi del Klondike.

Poi giunto in Alaska ho seguito il consiglio di Philippe, un pensionato svizzero conosciuto in un campeggio che con sua moglie si sta girando tutto il nord America in bicicletta: la Denali Highway è uno dei più bei posti dove abbia mai pedalato in vita mia. E  non solo aveva ragione, ma e’ stato ancora piu’ bello di quanto potessi immaginare.

Pedalare su immensi plateau desolati senza vegetazione alcuna, con branchi di caribou al pascolo sui crinali, coi ghiacciai sempre sullo sfondo e pensare che una vastità così non l’avevi mai vista. Superare un passo o girare intorno ad una montagna, e ritrovarti in un altipiano talmente piu’ vasto di quello precedente da non riuscire a vedere la fine della strada che pure corre dritta davanti a te senza una fine apparente. E così avanti con lo stesso stupore per quattro giorni interi.

Pensandoci bene questo è il viaggio che sognavo da quando avevo almeno 16 anni. Non necessariamente questo viaggio fra Canada ed Alaska, ma questo viaggio inteso come modalità dello stesso. Bici, tenda, qualcosa da mangiare e da bere, qualche mappa, un gps e soprattutto tanta curiosità.

Qualche giorno prima di arrivare ad Homer, la fine ideale di questo giro, pensavo dove tutto questo era cominciato, e la mia mente è tornata indietro negli anni.

Ho ripensato ai primi giri in bici all’Isola d’Elba ed in Sardegna con Pucci. Poi sono passato ad anni più recenti con il tour fantascientifico attraverso Albania e Grecia, col grande Testoni-sandalino, per raggiungere Istanbul ma che non raggiungemmo mai. Al giro di Cipro con Oriano in agosto (ancora oggi mi chiedo perche’ lo facemmo in agosto, cosa avevamo fatto di male?) poi Inghilterra e Francia.

Ho ripensato ad una rivistina di cicloturismo con una foto di una persona con bici carica. Ma non era esattamente la scintilla. Poi d’un tratto mentre attraversavo Ninilchick sotto l’ennesimo temporale, un antico borgo di pescatori fondato da russi nell’800, la mente, per chissà quali strane associazioni mi cade su quei tre numeri della rivista dalla cornice gialla.

Poi alla sera parlando con un amico gli ho detto, un po’ triste e un po’ contento, come sempre alla fine di ogni viaggio: sono arrivato alla fine della strada. No, dice lui, la strada finisce dove finiscono i sogni. Cazzo ha ragione. Io ho ancora molti sogni, e questa non è la fine della strada, è solamente la fine di una strada.

Ho fatto una piccola ricerca ed ho scritto a Roff Smith, che collabora ancora con National Geographic ed ha un blog che si chiama: My bicycle and I (http://www.my-bicycle-and-i.com/) e la cosa simpatica è che abbiamo una cosa in comune e non è la bicicletta.

(Anche Ian Lloyd, l’autore delle foto collabora ancora con NG)

Questa è la sua risposta:

 

Hi Stefano

Many thanks your your wonderful email and kind words about my cycling series in National Geographic. I am so pleased that you enjoyed reading it and found yourself inspired to tackle your own great cycling adventure – and what an adventure that must have been; cycling to Alaska. That was one of my own daydream for many years.

Funnily enough our stories are quite similar – I was given a subscription to National Geographic many years ago (back in the 60s!) by my grandfather. I loved the archaeology series in particular, and the idea of travelling around the world writing and photographing for the magazine. I resolved I would do that one day. And so I have. But one story in the magazine in particular caught my fancy – that was a story in the May 1973 about bicycles, and a smaller feature that accompanied it about four young people who were cycling the Alaskan Highway (and on their way, ultimately, to Tierra del Fuego in Argentina)

I can still remember the thrill that seeing the photographs of those four on their bicycles gave me – I way already in love with cycling and the possibilities for using my bicycle to see the world, and there on the pages of National Geographic was proof such things were possible. It always gave me a quiet thrill to think that I did indeed eventually do a story – series of stories – on a bicycle expedition for National Geographic. I never did do the Alaskan Highway though – maybe someday.

I live in the UK now and have since done some wonderful cycling treks here and across the Continent.

I am so glad you had a great adventure riding to Alaska. That is really an epic ride. Congratulations.

Ad thank you so much for the note.

Roff


 

ps.

Trovata la copia del National Geographic del Maggio 1973 in una delle biblioteche pubbliche di Anchorage che ha ispirato Roff, rimango sorpreso da una buffa coincidenza.

Guardando la mappa del percorso di queste due coppie di americani, scopro che hanno pedalato esattamente sulle stesse strade che ho affrontato io, anche se in senso inverso e in condizioni, talune, molto peggiori delle odierne.

Stefano Elmi

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Iand-and-I-Karri
Ian Lloyd and writer Roff Smith in Western Australia

 

 

 

scrittimaiali

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