La luce si sta affievolendo, sono da poco passate le undici di sera e sto seduto a scrivere due appunti davanti alla finestra che guarda il lago: stasera ho la mia cabin. È una baracca di tronchi di abete di quattro metri per quattro all’incirca, una porta che si chiude male, un letto a castello, un tavolo e una sedia. All’esterno un piccolo porticato dove ho sistemato la bicicletta davanti a una bandiera a stelle e strisce a brandelli.
Il vento è cessato e un caldo mediterraneo lo ha fatto da padrone per l’intera giornata. Come tre immensi coni gelato ricoperti di panna i tre vulcani: Wrangell 4.300 metri, Sanford 4.900 metri e il più piccolo, il Drum 3.600 metri, mi fanno compagnia guardandomi le spalle. Sono immensi e si stagliano altissimi nella foschia da calura.
In direzione di Anchorage i paesi e le stazioni di servizio si moltiplicano, non sembra più di stare in mezzo al niente. Poi il pomeriggio cambiando direzione e andando verso nord, verso Fairbanks, le cose cambiano. La strada di pianura non è più tanto di pianura, la vegetazione muta da boscaglia generica ad abeti e pini, la temperatura si fa a poco a poco più fresca, ho iniziato a salire e non me ne ero neanche accorto.
La strada si è fatta anche stretta per gli standard nordamericani. Enormi camion cisterna non alterano mai la velocità: sempre in pieno. Per gran parte del pomeriggio pedalo con al mio fianco una conduttura di metallo che segue le rugosità del terreno come un serpente. Dentro quel tubo costruito circa 40 anni fa, che ogni tanto scavalca il fiume, ci passa il petrolio estratto qualche migliaio di chilometri più a nord a Prudhon Bay sulle rive del Mar Artico e scende giù fino al porto di Valdez.
Valdez è famosa per poche cose: uno dei migliori posti per lo sci freeride in Alaska. Scoperto da Doug Coomb, negli anni ’90. Il paese è stato distrutto più volte da maremoti. Ha un nome poco indigeno e la petroliera della Exxon che portava il suo nome disintegrò lo scafo proprio davanti alle sue coste nel 1989, causando un disastro immane.
Mi fermo a riempire le borracce alla base della salita che mi porterà l’indomani all’imbocco della Denali Highway. Pensavo di passare qui la notte, ma il ristoro è chiuso e non posso usare le provviste destinate ai prossimi giorni. Trovo un signore che mi suggerisce di andare ancora avanti per una quarantina di chilometri, fino al Meyer’s Lake, dove pare ci sia una roadhouse sicuramente aperta, dice lui.
Non volevo fare tutta questa distanza oggi, ma tant’è, ed alla fine arrivo super-affamato alla roadhouse suggerita non so più da chi, esattamente cinque minuti prima della chiusura. Che gioia indescrivibile, di solito in questi frangenti arrivo sempre cinque minuti dopo.
Si respira aria di montagna, il paesaggio qui è definitivamente cambiato.
Divoro un piatto gigante di pastasciutta e poi chiedo se posso campeggiare sulla riva del lago, proprio fuori dal ristorante.
-Sì tranquillo non c’è nessuno problema – mi dice molto gentilmente la proprietaria
Poco dopo torna
-Guarda abbiamo una cabin vuota poco più in là, c’è un letto e un materasso, la porta è aperta vai quando vuoi –
Domani inizierò la Denali Highway e stasera ho la mia cabin.
continua…
Stefano Elmi
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