Wild Yukon

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A Pellin Crossing ho imparato più insulti, parolacce e bestemmie in inglese in una nottata che in anni di studio. Non le ripeterò per rispetto, ma ne scriverò solo alcune.

Il motivo principale era una lite fra due sedicenti fidanzati che ha tenuto banco fino alle sei di mattina. Lei pazzesca, una belva per insulti e parolacce senza ritegno verso di lui. Lui veramente un disgraziato che al massimo della sua ira le ha detto: Ti odio! Oppure: me ne vado! Guarda che me ne vado questa volta! Vado! Vado!? Vado??? Con quell’intercalare sul finale che sembrava più una domanda che un’affermazione. Poveraccio non ce la faceva proprio.

Di per se lo Yukon è un posto selvaggio e particolare per i soggetti che ci vivono e il disagio che aleggia nell’aria, ma quello che ho capito è che nel week end tutto vale doppio.

Ero arrivato a Pellin Crossing dopo una giornata sotto l’acqua. Avevo pedalato per chilometri nel fango, perché l’asfalto se n’era andato e i lavori in corso non erano poi così in corso. Ancora in testa le gesta del vecchio leone Bartali al Giro d’Italia del 1949 narrato da Dino Buzzati, che nulla può contro il giovane Coppi ed il suo scatto sul Colle della Maddalena, che lo porterà ad attraversare in solitaria sotto l’acqua il Col de Var, il Col de l’Izoard, il Colle del Monginevro, il Colle del Sestriere e vincere una tappa che ha fatto storia: la Cuneo-Pinerolo.

La Carmack-Pellin Crossing ne ha fatta molta meno. Superati i lavori in corso corro come un matto per sfuggire ad un temporale imminente, sono convinto di schivare il temporale avendo visto sulla carta che c’è un lodge da qualche parte nel niente. Sembro il vecchio leone all’inseguimento del giovane airone. Arrivo là, su quel puntino che avevo fatto sulla mappa con la penna, ad una velocità assurda. Sbaglio i calcoli: non c’è niente. Il lodge è a 10km lungo una strada laterale. Io ho finito la benzina ed inizia a piovere forte.

Niente fra qui e Pellin Crossing, la prossima stazione di servizio ed un campeggio libero. La strada inizia a salire e io mi trascino non so come per i 40 km che mi separano dalla meta. Mi getto nella stazione di servizio a mangiare un accozzaglia di cose fra le più varie e disparate che mi diano energia.

Faccio amicizia con un signore che ciondola intorno alla pompa di benzina e beve un caffè nel solito barattolo di carta. Vive qui e la stazione di servizio, col il piccolo negozio, pare essere il centro della comunità, ma non c’è neanche un posto per sedere. Arrivano anche altri locali, discutono, biascicano, poi un signore con una vecchio pick-up tutto restaurato si ferma a fare il pieno e subito parte la gara a chi indovina prima di che anno è quel modello. Un tipo giovane alla fine lo chiede al proprietario, che non sembrava molto entusiasta per l’interesse della ciurma nei confronti del suo mezzo. Comunque per la cronaca il giovincello ci azzecca, era un Dodge nonsocosa del 1966.

Il campeggio è in riva al fiume Pellin ed è pieno di giocatori di softball con famiglie al seguito. C’è un importante torneo amatoriale questo week end.

Mi faccio un riso d’ordinanza con condimento indefinito e sistemo la tenda in un posto un po’ in disparte. Mi butto dentro e provo a dormire anche se è quasi sempre giorno. Sono le 10 e in lontananza oltre la stazione di servizio sento delle voci, ma ci faccio poco caso. Dopo un’ora si fanno più intense: è l’inizio della lite coniugale. Ma rimane comunque relegata al di là della strada ed è abbastanza lontana dal campeggio, ma durante la notte, si sa, tutti i rumori si amplificano.

E così chiuso nel sacco a pelo il mio sottofondo è tutto uno shut-the-fuck-up, son of bitch, asshole da parte di lei naturalmente, e questa era solo la parte gentile del battibecco, poi molte cose chi l’ha capite, ma comunque non erano molto delicate.

Poi incredibilmente intorno a mezzanotte e mezza tutto tace. Ah finalmente, dopo due ore e mezza di combattimento un po’ di pace, posso dormire. Non passa neanche mezz’ora che c’è un riposizionamento: i due hanno attraversato la strada ed ora stanno venendo nel campeggio e ricomincia la faida, sempre scambiandosi gentilezze reciproche d’ogni genere.

E’ un incubo. Un incubo che terminerà solo intorno alle 6 di mattina senza nessun apparente vincitore. C’era stata solo una flebile speranza intorno alle 3-3,30 quando le voci si erano abbassate e un velo di dolcezza era sceso, forse dolcezza è esagerato, diciamo che c’era un velo di calma apparente e parole non urlate, gentilezza? Alle 4 in punto tutto svanisce nel niente ed è di nuovo un asshole o shut-the-fuck-up ed eccetera, eccetera.

Alla mattina sono devastato, forse anche più di loro, farò colazione con una zuppa di chili con carne e caffè-latte: da rivedere.

Riparto in quella che sembra una giornata soleggiata abbastanza calda. Incontro mamma orsa e cucciolo orso numero uno e cucciolo orso numero due intenti ad attraversare la strada. Guardo la scena a debita distanza.

Poi qualche chilometro dopo incontro un’altra famiglia, molto bella, la mia preferita. Sono in quattro e sono tutti in bicicletta. In testa il papà e dietro alla sua bici, attaccata ad una sorta di prolunga con una terza ruota, sta il figlioletto che si diverte a pedalare. La mamma a chiudere il gruppo e nel centro un altro figlio più grande con la sua bici.

Arrivano da Inuvik, nei territori del Nord-Ovest canadese, sulle rive del Mar Artico. Si sono fatti 700km di una strada completamente sterrata e fra le più remote della regione, la Dempster Highway. La loro metà sarà Vancouver.

-Vorrei essere li! – dico al figlioletto che sta seduto nella sua bici attaccata a quella del padre. Ride.

-Com’è il campeggio libero a Pellin Crossing? – mi chiede il padre

-Beh… ieri sera era venerdì e non ho chiuso occhio –

– Quindi figuriamoci oggi che è sabato –

– Esatto…-

-Il selvaggio Yukon – mi dice ridendo

– Eh sì, selvaggio in tutti i sensi –

Emanano una tranquillità ed una naturalezza incredibile, i figli specialmente. Non sono quanti mila km faranno e quanto ci metteranno, ma affrontare un’avventura così con i due figlioletti è una cosa che ai miei occhi li rende davvero unici.

Chissà cosa rimarrà ai pargoli di questa esperienza? Magari non toccheranno mai più una bicicletta in vita loro, ed invece sono convinto che li influenzerà tantissimo in futuro. Complimenti, sono i miei eroi di giornata.

Attraverso lo Stewart River e giro a sinistra, l’unico bivio in non so quanti centinaia di chilometri. A destra la strada per Mayo e Keno, i due posti più caldi in estate e più freddi in inverno di tutto lo Yukon, così dice il cartello.

Mi fermo circa un’ora dopo a Moose Creek dove c’è un piccolo lodge gestito da una tedescona che non s’impietosisce di me affamato, anche se arrivo esattamente 5 minuti dopo la chiusura. Poi però ci ripensa e mi chiede se voglio qualcosa, che non capisco che cosa sia, ed ovviamente rispondo di sì. Mi porta una specie di wusterl immangiabile che però mangio e una torta di carote, buona, e poi il conto. Impietosita sì, ma fino ad un certo punto: business is business.

La mattina nel campeggino di Moose Creek incontro un messicano che è partito da Anchorage e va fino in Messico per completare il giro del mondo mi dice.

– Cosa? cosa? cosa?

– Sì ho fatto il giro del mondo a pezzi, diciamo così. Avevo già fatto dal Messico a Ushuaia, ed ora mi mancava questo tratto per completare l’America. Poi ho pedalato dall’Asia all’Australia, dall’Europa all’Africa, ed una volta giunto nel continente africano sono partito da Il Cairo e sono andato giù fino a Città del Capo.

Ha una bici semplicissima a prima vista, vedo che non ha il cambio, ed invece lui mi spiega che ha un mozzo speciale di una ditta tedesca che praticamente costa quanto tutta la mia bici con me sopra. Dall’esterno non si vede niente, gli ingranaggi sono tutti dentro in mezzo all’olio. Mi fa un elenco di paesi che neanche in una partita a Risiko e mi dice che ha cambiato la catena solamente una volta, per il resto manutenzione zero.

Facciamo colazione assieme e la curiostà è troppa. Così gli chiedo che lavoro fa o ha fatto per permettersi il giro del mondo in bicicletta. Immediatamente getto un silenzio assordante su tutta la tavola. Il messicano è in evidente imbarazzo, dopo alcuni lunghissimi secondi di mutismo, se ne esce dicendomi che è in pensione. Si vede che non ci crede nemmeno lui, anche ad una prima occhiata l’età non è quella della pensione. Ma fa niente, faccio finta di crederci pure io e poi mi fissa alcuni istanti che mi son sembrati interminabili. Afferrato il concetto: mai chiedere a un giramondo che lavoro fa.

Stefano Elmi

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