Live in Sarajevo

Mosso dal testo della canzone dei C.S.I. sono andato a vedere che cosa fosse veramente questo famoso “catino”.

Questo luogo di frontiera che avevo sempre visto in televisione quando frequentavo le scuole elementari come qualcosa di già visto, di inevitabile, come il bagnarsi quando piove, o il sudare quando è caldo. Il tutto assimilato nella maniera più distratta possibile all’ora di pranzo o cena al telegiornale. Ricordo anche, sarò stato al terzo o quarto anno, che ci riunirono per decidere cosa potevamo fare noi per loro. Alla fine decidemmo di inviare dei giocattoli. Io portai da casa delle macchine e dei camioncini, quest’ultimi anche discreti, poi impacchettammo tutto negli scatoloni e lo consegnammo al nostro maestro di matematica, già famoso per palpar il sedere alla nostra maestra di storia, che li caricò sulla sua Fiat 126 verde acqua che con il suo sferragliare arrivò fino all’ufficio postale.

Poi più niente o quasi. Scuole medie. Massacro di Srebrenica. Morte. Nazioni Unite immobili. Morte. Bombardamenti Nato. Morte. Eccetera. Morte. Eccetera.

Come è possibile che l’occidente permetta una cosa del genere all’interno dell’Europa?” fu la domanda più sentita in quel periodo. Già perché? E io che ne so. Io frequento una scuola media in un paesino dell’Appennino Tosco-Emiliano. Io però avevo mandato delle macchinine tempo fa. Saranno arrivate? Saranno servite? Nonostante le mie macchinine però si continuava a morire e forse nessuno riusciva più a capire perché o per cosa.

Che tristezza! Nessuno sapeva dirti niente a scuola.

1999. Guerra in Serbia e Kosovo. Ok ci sono. Sono grande a sufficienza per capirci qualcosa per tenermi aggiornato. Allora perfetto si parte.

‘Guerra umanitaria’. ‘Bombardamenti Nato sulla Serbia’. ‘Paramilitari serbi in Kosovo’. ‘Campi profughi in Albania’. ‘Danni collaterali’. Fermi tutti. Non ci siamo di nuovo. Non ci capisco già più niente. Eppure frequento un cazzo di istituto superiore, anche se fra i meno politicizzati ma ci sarà pure qualcuno che saprà districarsi? Pareva di no.

Quale miglior soluzione alla fine se non vedere tutto coi propri occhi? Alla fine anni dopo sono partito. Partito con questo mio bagaglio di ricordi e di conoscenze distratte, ma comunque guidato da una convinzione che ormai era rimasta una mia costante negli anni: che noi, intesi come parte del mondo sviluppato, non ci sentivamo minimamente toccati rispetto a cosa era accaduto in quelle zone e specialmente nel “catino”, ovvero Sarajevo.

Immaginavo una città lontanissima, esotica, arabeggiante, quasi appartenesse all’emisfero australe, mentre in linea d’aria non sarà più distante della Sicilia.

Appena arrivato quello che ho trovato sono state le vetrine fredde e luminose delle marche di abbigliamento fra le più famose. Locali alla moda dove i giovani si riunivano per l’happy hour nel tardo pomeriggio, come ce ne sono molti nella mia città.

Quello che ho afferrato alla prima occhiata era che molte persone, sopratutto i giovani parlavano mal volentieri della guerra, se non ne parlavano affatto.

Quello che ho visto è stato lo sfrecciare delle jeep della Nato, Eurofor, Osce, Onu, Carabinieri, Gendarmi francesi, ma nessuno si fermava mai.

Quello che ho notato in una città costituita in gran parte da popolazione musulmana, sono stati solo una manciata di veli che coprivano le teste delle donne.

Quello che ho fatto insieme ai miei compagni di viaggio è stato di fermarci, semplicemente a pensare un po’.

Stefano Elmi

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2 pensieri riguardo “Live in Sarajevo

  1. una città che tenta di rialzarsi…in piena europa ma allo stesso tempo così lontana…la speranza quando chiedo un’informazione nei pressi dello stadio olimpico: mi vengono incontro una donna velata di religione musulmana, una guardia originaria della serbia e un croato di dubrovnik…fino a pochi anni fa si sarebbero uccisi…ora scherzano tra loro mentre cercano di spiegarci dove andare…forse un giorno le colline intorno a Sarajevo torneranno a essere solo colline, e non cimiteri.

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