Abito al primo piano di un palazzo molto poco bohemien.
Appena fuori sul pianerottolo senti già l’odore indefinito che caratterizza l’appartamento.
La mia stanza la condivido con uno studente siciliano di Palermo. Studia legge ed è il massimo sospettato per l’indefinibile odore (mai visto farsi una doccia).
La camera è semplicemente squallida. Imbiancata di un bianco sporco. E’ divisa da due armadi che arrivano al soffitto. E sui muri laterali i letti. Il mio e il suo. In un angolo vi sono due tavoli di plastica bianca, di quelli che si usano all’aperto, con sopra il suo computer, il suo subwoofer, il suo stereo, i suoi libri, la sua tv, i suoi capelli, le sue cingomme e tanta, tanta polvere.
E’ da due anni che abita lì, ma sembra invece che vi ci sia appena trasferito.
La poltrona è sfondata, ma se pulita, è molto comoda. Forse è l’oggetto più bohemien dell’intero appartamento. La luce è un faretto da cantiere, avvitato nel muro e puntato in alto. Fa una gran luce. Che dire poi della cucina. La prima volta che ci sono entrato. Simone, il mio compagno di stanza, mi fa: l’ha appena imbiancata Michele (muratore pugliese che vive in una singola nello stesso appartamento) Chissà com’era prima! Faccio io. Colore standard: bianco sporco. Tre sedie. Tutte diverse e tutte scassate. Un tavolo integro, per fortuna.
Il bagno. Piccolo, ma questo non ha importanza. La cosa più importante per le complesse conseguenze è la mancanza della tavoletta. Fatto gravissimo! Il porta asciugamani è rotto e spenzola. Il mobiletto è coperto di polvere e rasoi. C’è anche uno specchietto di una vecchia panda, usato da qualcuno per farsi la barba. La doccia è ermetica. Una porta è scorrevole, l’altra si prende di peso e si appoggia secondo l’evenienza. Però lo scarico funziona bene. Dietro la porta c’è un calendario kamasutra, di un anno indefinito, in cui sono rappresentate trecentosessantacinque posizioni diverse. Il tutto illuminato da una lampadina da 50 watt, appesa alla rinfusa al muro.
La facoltà non è lontana, percui la mattina vado a piedi.
Cammino lungo i marciapiedi della periferia, mentre scooter e auto sfrecciano in maniera caotica e assordante. Costeggio il palazzo della regione, l’euronics, un cartellone che da 5-6 anni pubblicizza un parco pieno di verde proprio nel cuore di Novoli, e poi un cantiere, un altro cantiere e un altro cantiere ancora ed infine arrivo in facoltà, un cantiere appunto. Non ho ancora valicato la porta della “Cesare Alfieri” che m’imbatto in due furgoni con sulle fiancate disegnate delle fiamme. Accanto vi sono alcuni ragazzi vestiti di nero, con collane vistose, facce abbronzate, sopraciglia tagliate, capelli piastrati, che promuovono una bevanda energetica: Burn. Poco più in là due ragazze avvenenti, apparentemente identiche, con una mini e una lattina di red bull gigante piantata sul tetto regalano da bere. Un senso di nausea m’inizia a pervadere.
Vedo una ragazza sorridente appena laureata con una bruttissima corona di alloro in testa, circondata da familiari in nero e felici. Qualche metro più in là, dietro le reti, un operaio, sudato e impolverato con la sigaretta in bocca, sta scaricando un camion e contemporaneamente guarda quelle persone festose. Li osservo. I loro sguardi non si incrociano mai. Poi la studentessa sorridente va via e l’operaio sempre più impolverato continua il suo lavoro.
Non sono ancora entrato che una sorta di angoscia preventiva mi assale.
In lontananza intravedo un gruppo di giovani in giacca e cravatta sotto un gazebo. Intuisco che sono i “ragazzi delle libertà”. Il mio animo tollerante ha un sussulto.
Anche stamattina ce l’ho fatta. Sono sulla porta. Posso entrare, ma prima mi blocca un ragazzo di Lotta Comunista. Mi parla di massa e masse. Lo vedo vicino. Lo sento lontano.
Ora posso andare alle lezioni. Un professore ci dice che non è lui il professore, che siamo noi che sappiamo già tutto e che ci vuole solo dare gli strumenti per tirare fuori questo “tutto”. Un altro professore ci dice che siamo solo degli ignoranti venuti qui perché non abbiamo voglia di lavorare. Una professoressa ci considera bambini delle elementari. Un’altra ci considera dei filosofi greci. Un’altra non ci considera affatto, dice che come sa le cose lei non le saprà nessuno. Siamo contenti.
Siamo in tanti alle lezioni e siamo soli.
Me ne esco e m’incammino sui marciapiedi dei viali che già è quasi buio. Passo davanti all’ex-fabbrica, laddove un tempo c’era la Fiat. Mi giro svogliato e per un attimo vedo, da dietro delle vecchie sbarre di cemento con del filo spinato che spenzola giù, i palazzi nuovi della facoltà e quelli in costruzione, in mezzo ad una desolazione di un campo minato di cartelloni pubblicitari. Sulle strisce pedonali che sto attraversando mi volto ancora indietro e mi salta su un pensiero istantaneo per quella cosiddetta visione: lo studio rende liberi….
Sento che i clacson si fanno più insistenti. E’ scattato il rosso.
Stefano Elmi
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