“Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto
sociale tra individui, mediato dalle immagini” Guy Debord
Polvere. Urla. Caldo. Umido. Pioggia. Fango. Confusione. Boscaglie
sgangherate. Pale di elicotteri come ventilatori. Fucili mitragliatori. Radio
gracchianti. Barelle. Sacchi di plastica. Casse di birra. Canne d’erba.
Mostrini, lustrini, medaglie. Baschi, elmetti, caschi. Napalm. Bambini
piangenti. Donne stravolte. Soldati feriti. Civili feriti. Rock and roll. Risaie.
Capanne. Trincee. Villaggi. Fiumi senza fine. Basi militari improbabili.
Biciclette. Musi gialli. Vietcong. Charlie. Ragazzi del mid-west. Jeep. Carri
armati. Prostitute. Mercato nero. Surf. Tatuaggi. Ospedali. Ospedali da
campo. Generali. Colonnelli. Tenenti-colonnelli. Maggiori. Capitani.
Tenenti. Sotto-tenenti. Sergenti-maggiori. Sergenti. Caporali. Soldati
semplici. Paura, paura e ancora paura.
Per chi non lo ha vissuto di persona questo può essere tutto ciò che il
Vietnam è stato.
Tutti, interessati o meno all’argomento, almeno una volta abbiamo visto in
televisione un film, un documentario o anche solo qualche immagine;
magari di un elicottero che vola basso sulla foresta con un mitragliere che
si sporge, o una barella caricata a fatica sopra e la ripartenza in tutta fretta.
E’ stata la prima guerra televisiva della storia.
Le tecnologie erano migliorate, le telecamere erano facilmente trasportabili
e le televisioni si stavano diffondendo sempre di più in tutto il mondo.
La prima sensazione della maggior parte dell’opinione pubblica dell’epoca
quando si trovò davanti le immagini proiettate dallo schermo fu come
qualcosa di già visto, come già visto al cinema appunto. La non piccola
differenza da cogliere era che quello che appariva dentro l’elettrodomestico
a forma di scatolone era la realtà. La realtà del Vietnam.
“Vien da domandarsi se una democrazia che autorizzi la diffusione di
telecronache indiscriminate sarà nel futuro capace di combattere una
qualsiasi guerra, per quanto giusta….. Tutta la brutalità dei combattimenti
comparirà a colori e in primissimo piano, e sui teleschermi a colori il
sangue è molto rosso”91 Robin Day (speaker BBC)
Quella realtà di guerra piano, piano iniziò a scontrarsi contro le esigenze
televisive. Tutto il materiale raccolto andava compresso per i notiziari della
sera che duravano solo pochi minuti.
Ed ecco allora che il nuovo medium di massa si presentava con tutta la sua
carica di cinismo. Tutta la carica della sofferenza umana prodotta dalla
guerra andava ridotta a poco più di tre minuti.
Tre minuti per rendersi conto dove si trovava il Vietnam. Tre minuti per
rendersi conto cosa stesse succedendo in Vietnam. Tre minuti per rendersi
conto cosa stessero combattendo gli Americani in Vietnam. Tre minuti per
rendersi conto di quanti Americani erano morti in Vietnam. Tre minuti per
rendersi conto di aver già dimenticato tutto sul Vietnam.
Il prodotto andava usufruito velocemente durante la cena e altrettanto
velocemente, il prodotto, andava dimenticato per creare nuovi bisogni.
“Secondo me, con il piccolo teleschermo si perde una dimensione e tutto
sembra più piccolo del normale, è impossibile, per esempio, trasmettere il
vero rumore della battaglia. Rimango sempre male quando vedo finalmente
le scene che ho ripreso e mi chiedo: tutto qui? La televisione non riesce a
trasmettere il senso del pericolo e il corrispondente fa sempre la figura di
uno che non fa alcuna fatica”92
Sandy Gall ITN, alle prese con la dura realtà del suo lavoro di cameraman.
Stefano Elmi
note:
Titolo: “Ghost”, Riot Act (2002), Pearl Jam
Foto: Philip Jones Griffiths – Magnum/Contrasto
91 P. Knightley “Il dio della guerra” p.451 op.cit.
92 Idem, p.452 op.cit.
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